Come e perché l’Italia è entrata nell’euro

Perché l’Italia è entrata nell’euro

L’Italia fa parte dell’Unione Europea e come Paese Membro la moneta ufficiale è l’Euro, che ha messo da parte la Lira a partire dal 2001. Ma come è nato tutto questo e chi ha spinto politicamente al fine che accadesse l’entrata dell’euro in Italia? È un vantaggio o uno svantaggio? Tutto quello che bisogna sapere.

Quando l’Italia entra nell’Unione Europea

In pochi sanno che sia proprio l’Italia uno dei Paesi Fondatori della UE attuale che è stata istituita nel 1957 in data 25 marzo. È una storia articolata e molto lunga che parte nel momento in cui sei Paesi firmano il trattato: Francia – Belgio – Lussemburgo – Paesi Bassi e Italia.

Il trattato si è basato principalmente sull’accordo economico del 1951 – Trattato di Parigi – così da stabilire un mercato comune tra tutti i Paesi che prevede la libera circolazione di beni – servizi e persone liberando i confini dalle solite barriere. Essendo un fondatore primario e storico, l’Italia ha sicuramente un ruolo fondamentale in tutto il funzionamento e l’organizzazione delle strutture. L’anno in cui l’Italia entra nell’Unione Europea è quindi il 1957 fino ai giorni nostri e a seguire.

Quando l’Italia è entrata nell’Unione Europea ha mantenuto il suo ruolo, che si è andato a consolidare nel 1992 con il Trattato di Maastricht che ha sancito il vero e proprio pilastro nella storia dell’Europa. Oggi il Parlamento Europeo è l’organo legislativo dell’Unione dove ci sono 73 eurodeputati italiani su un totale di 754.

Se si guarda tutta la faccenda da un punto di vista prettamente legislativo, allora l’Italia è un Paese molto forte dietro solo alla Germania e alla Francia. Di certo non sono passate inosservate molte personalità dell’epoca, una tra tutti Romano Prodi – undicesimo commissario europeo – in carica dal 1999 sino al 2004.

Se si vuole evidenziare un punto di vista geografico, all’ora l’Italia viene considerata la porta sul Mediterraneo con punto di contatto privilegiato con il resto dell’Europa e tutti i Paesi arabi – balcanici e nordafricani. Il nostro Paese è senza dubbio un luogo che tutto il mondo considera il partner ideale per lo sviluppo dell’economia, cooperazione e sicurezza.

Dal momento in cui l’Italia entra in Europa vengono evidenziate tutte le eccellenze del settore produttivo ed enogastronomico: dal 2002 per esempio a Parma c’è la EFSA, che si occupa di studi scientifici e divulgazioni di prodotti che si consumano abitualmente tra i Paesi Europei.

Quando è arrivato l’euro in Italia

L’Euro è la valuta comune ufficiale dell’Unione Europea, in Italia vigente dal 2001 mentre l’ultimo Stato ad aver aderito è la Lituania nel 2015. Un amore e odio che ha visto la popolazione italiana abbandonare la Lira per passare alla moneta unica: un salto e un cambiamento che ancora oggi divide le opinioni delle persone.

Chi ha voluto l’euro in Italia? La scelta è basata su una natura prettamente politica durante il Governo Prodi con la nascita di non pochi dibattiti e discussioni in merito (soprattutto sul cambio).

La nascita ufficiale della moneta unica avviene a gennaio 1999 con un comunicato emesso dal Consiglio dei Ministri Europei. Il debutto è stato fatto due anni prima dalla sua messa in circolazione, così da abituare i vari Paesi all’idea. L’Euro è amministrato dalla BCE – Banca Centrale Europea – che ha sede a Francoforte insieme al Sistema Europeo Banche Centrali.

I tassi di cambio delle diverse nazioni – che hanno sollevato non poche polemiche – sono stati determinati dal Consiglio Europeo in base ai valori di mercato vigenti a fine 1998. In Italia la sperimentazione è avvenuta a Fiesole e Pontassieve per sei mesi da ottobre 1999.

L’Italia è stata spesso definita una “Repubblica della Guerra Fredda” – una Repubblica, cioè, in cui non solo la politica estera, ma i cui equilibri interni erano in parte determinati dalla situazione internazionale, data la presenza in Parlamento del più grande Partito Comunista d’occidente. Anche per questa ragione, all’indomani del crollo del Muro, nei confini della penisola ci si trovò ad ondeggiare tra due sentimenti contrastanti: il sollievo, soprattutto tra l’opinione pubblica, per quella che veniva vista come l’inizio della fine di una contrapposizione ideologica che era innanzitutto interna al paese; e la preoccupazione, principalmente diffusa tra intellettuali e classe politica, per le conseguenze che tale evento avrebbe potuto portare all’Italia in termini di stabilità interna e posizionamento internazionale.

Nonostante in un primo momento si fosse cercata di sfruttare l’improvvisa mobilità del sistema internazionale per aprire nuovi spazi di iniziativa, fu chiaro ben presto che dalla riunificazione tedesca nasceva innanzitutto per la Penisola una promessa di marginalizzazione. La conferma definitiva di tale marginalizzazione si ebbe in occasione del Vertice di Ottawa del febbraio 1990, dove gli Stati Uniti annunciarono la decisione di procedere verso la Riunificazione tedesca non, come si era da più parti auspicato, affrontandone i problemi in un consesso multilaterale come la NATO o la CEE, ma nella più ristretta conferenza 2+4, che riuniva al suo interno esclusivamente le due Germanie e le quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Le proteste del ministro degli Esteri Gianni De Michelis vennero messe a tacere da uno stizzito Hans Dietrich Genscher, sua controparte tedesca, che ricordava seccamente all’Italia di non essere “parte del gioco”

Dalla consapevolezza che di questa fase finale della Guerra Fredda l’Italia non fosse, effettivamente, parte del gioco, nacque anche la necessità – già presente, ma in quel momento senz’altro più marcata – di trovare il proprio spazio e la propria ragion d’essere diplomatica nel processo di integrazione europea. Ora che la rendita di posizione che lo scontro bipolare aveva garantito all’Italia in termini geopolitici andava esaurendosi, l’Europa diventava l’unico teatro internazionale nel quale poter giocare un ruolo rilevante.

Per questi motivi, venne posto l’accento sulla necessità di accelerare il processo di integrazione e portarlo in sincronia con quello della riunificazione tedesca, spingendo la Germania ad accettare una volta per tutte l’idea dell’Unione Monetaria. Quello che viene definito da molti, tra cui lo stesso De Michelis, uno “scambio geopolitico” fra l’ok degli europei alla riunificazione e l’accettazione da parte della Germania di rinunciare al marco per l’euro, fu in realtà piuttosto l’incontro di interessi convergenti che muovevano però da differenti premesse. L’Unione Monetaria era voluta da tutti, come venne certificato al Consiglio di Strasburgo, ma molto si sarebbe dibattuto sui tempi e i modi di questo percorso.

Durante il semestre di Presidenza della comunità assegnatole a partire da luglio del ’90, l’Italia riuscì a svolgere un ruolo positivo (nonostante per la maggior parte della sua durata l’attenzione venisse assorbita dalla crisi del Golfo) e si riuscì comunque a terminare il primo Consiglio Europeo di Roma con la decisione di aprire due Conferenze intergovernative, una sull’UEM e una sull’unione politica, che avrebbero dovuto procedere in contemporanea. Nel secondo Vertice di Roma, poi, si aprì sotto la Presidenza di Guido Carli la CIG sull’Unione economica e monetaria.

L’Italia era però arrivata al termine del 1990 ormai allo stremo delle forze economiche e politiche. Dopo gli allarmi lanciati da Guido Carli alla fine dell’estate, Andreotti aveva sottolineato la gravità della situazione italiana alla Direzione Nazionale della DC tenutasi a settembre, e aveva affermato: «dobbiamo scrollarci di dosso la vecchia abitudine di credere che con il debito pubblico si risolvono i problemi. Dopo decenni di questa filosofia siamo con le spalle al muro […] siamo alla vigilia dell’Europa dei dodici, unita anche con un sistema monetario. Se fossimo alla fine del 1992 nelle condizioni attuali di squilibrio, l’Italia sarebbe la causa (o una delle cause) della non unificazione». Ma ancora alla fine di novembre il Fondo Monetario Internazionale consegnava al ministro del Tesoro un rapporto molto critico che evidenziava ancora una volta le mancanze italiane in materia di risanamento dei conti pubblici. Nonostante questo, però, il Parlamento perseverò con l’approvazione di provvedimenti in diretto contrasto rispetto alle indicazioni ricevute; queste difficoltà, aggravate dall’esplodere della vicenda Gladio, fecero sì che nel 1991, in sede di trattative per il Trattato di Maastricht, il governo e i negoziatori italiani ripiegassero rispetto a quasi tutte le posizioni ‘massimaliste’ di partenza che avevano mantenuto ancora all’apertura della Conferenza intergovernativa e che prevedevano: l’irreversibilità e l’automatismo delle fasi di transizione dell’UEM, l’istituzione di un organismo bancario nella fase due e la condizione per cui la scelta dei paesi che sarebbero infine passati alla terza fase avrebbe dovuto procedere per maggioranza e non all’unanimità. L’Italia fallì soprattutto sul secondo aspetto, ma anche per ciò che riguardava il rigore dei criteri di convergenza i negoziatori dovettero cedere su molti punti, accettando infine delle condizioni fiscali estremamente ed in netto contrasto con la situazione interna del paese.

Le necessità di natura politica – e cioè, principalmente, mantenere l’Italia al centro della Comunità Europea – ebbero dunque la meglio su quelle di natura economica, lasciate in mano ad una pattuglia di tecnici fermamente convinti della necessità per l’Italia di aderire all’euro e sfruttare al massimo il “vincolo esterno” per avviare un serio ciclo di riforme fiscali. La dimensione economica dell’integrazione, in quel momento dominante e dominata dalla Germania, avrebbe finito per portare definitivamente alla luce le debolezze strutturali dell’Italia. Il ‘vincolo esterno’ per certi versi funzionava, ma evidenziava anche l’irriformabilità del sistema politico e dunque la necessità del suo superamento. Nel 1992, proprio mentre un attacco speculativo spingeva fuori la lira dallo SME, l’Italia passava attraverso la tempesta di “Mani Pulite”, l’inchiesta giudiziaria che avrebbe segnato la fine della cosiddetta “Prima Repubblica”.

1994-1998: la corsa all’Euro

Il percorso che nella “Seconda Repubblica” vide l’Italia passare da una situazione di profondo dissesto economico all’ingresso nella moneta unica ha più di un protagonista: tra questi Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini e Romano Prodi, che ebbero il compito di guidare alcuni degli esecutivi chiave di questo periodo.

Il governo Ciampi si trovò ad agire in una situazione d’emergenza: i dati di partenza non erano dei migliori, né, per ovvi motivi, sul piano interno, né su quello internazionale, dove l’Italia era ormai diplomaticamente piuttosto isolata, guardata con scetticismo dai suoi partner europei, Germania in testa. L’ex governatore della Banca d’Italia cercò dunque di agire su più fronti, regolando i salari (con l’accordo sindacale che prese il suo nome), stabilizzando la moneta e riportando il bilancio in una situazione di rigore. Ma era ben difficile risolvere la situazione italiana nello spazio di un anno; il governo successivo, poi, il Berlusconi primo, non aiutò a migliorare la situazione, e alla fine del 1994 il parere della Commissione Europea sulle finanze italiane risultava ancora estremamente negativo.

Nel gennaio 1995 venne formato un nuovo governo “tecnico”, guidato da Lamberto Dini, che mantenne anche il Ministero del Tesoro, mentre la nomina al Ministero del Bilancio andò a Rainer Masera, collaboratore di Ciampi. Anche il governo Dini sapeva però di avere una durata limitata, ed anche in questo caso la stabilizzazione non poté che attuarsi in una situazione emergenziale. Per un governo compiutamente “politico” fu dunque necessario attendere elezioni dell’aprile 1996 e l’arrivo al governo di Romano Prodi, futuro artefice di un’impresa che al suo insediamento sembrava assolutamente impossibile da portare a termine.

Nonostante la sfiducia che arrivava dagli ambienti internazionali e le difficoltà nel mantenere in piedi una coalizione estremamente eterogenea, che andava da Rifondazione Comunista, in appoggio esterno, al Partito Popolare Italiano, erede della DC, Prodi poté contare sul vasto consenso dell’opinione pubblica per quel che concerneva la materia europea: l’85% degli italiani si dichiarava infatti a favore del processo di integrazione europea e il 75% ne l’appartenenza italiana.

I dati economici erano però ancora sconfortanti, se paragonati ai criteri di convergenza che l’Italia aveva accettato di perseguire: il deficit di bilancio era ancora al 6,7% rispetto al 3% richiesto, il debito pubblico arrivava al 124% del PIL, contro il 60% richiesto da Maastricht, e l’inflazione risultava ancora molto superiore alla media dei paesi più virtuosi.

Appurato, nell’estate del 1996, che non era possibile rinviare o cambiare i criteri di Maastricht, il governo Prodi mise in piedi due finanziarie, quella del 1997 e del 1998, che avrebbero portato, rispettivamente, 62 e 25 mila miliardi nelle casse dello stato. Grazie alla contestuale riduzione dei tassi di interesse e alla politica deflattiva attuata dalla Banca d’Italia, il cammino verso la convergenza non fu eccessivamente traumatico; le politiche monetarie restrittive, però, non passarono senza conseguenze.

Se gli obiettivi di Maastricht erano stati finalmente raggiunti, era evidente infatti quanto questo fosse costato all’Italia in termini di occupazione e crescita. L’ondata di privatizzazioni aveva senz’altro alleggerito le casse dello stato e portato fondi aggiuntivi, ma i benefici sarebbero stati tali soprattutto nel breve periodo. La stabilità e la disciplina portate in Italia dall’”obiettivo euro” furono perciò accompagnate da minori aumenti di reddito aggregato.

Non è un caso, dunque, che dopo l’ammissione ufficiale dell’Italia nel nucleo di 11 paesi che sarebbero entrati a far parte dell’euro il 2 maggio, Prodi si curò di porre l’accento sulla necessità assoluta di rilanciare gli investimenti, procedere ad una modernizzazione complessiva del paese, insistere non più sulla riduzione del disavanzo, ma concentrarsi piuttosto sul rapporto debito/PIL, puntando sulla crescita del secondo – obiettivi che avrebbero trovato, però, un discutibile freno nel Patto di Stabilità e Crescita, dove la “crescita” sarebbe figurata essenzialmente solo nel nome.

Il governo Prodi non resse ulteriormente: la seconda fase, quella cioè che avrebbe dovuto trasformare misure emergenziali in una struttura economica affidabile e stabile sul lungo periodo, venne in parte disattesa anche da quella stessa classe dirigente che si era stretta attorno all’obiettivo dell’euro, adagiandosi forse su un risultato certamente notevole ma che, di per sé, non sarebbe affatto bastato.

Quali conclusioni?

Quello appena letto non vuole essere un articolo esaustivo dell’argomento, né porsi necessariamente a favore o contro la permanenza dell’Italia nell’area euro. La storia che non è qui descritta, e cioè tutto quello che accadde dal 1998 in avanti (ma anche lo stesso Patto di Stabilità e Crescita) cambiò in parte le carte in tavola e non tutto ciò di cui si discute oggi trova le sue radici nei trent’anni presi in considerazione in questa sede. Chi scrive è dell’idea che sia del tutto positivo che vengano messi in discussione e riconsiderati aspetti dati a lungo per scontati. È certo però che questa discussione non può avvenire su dati e considerazioni che sono totalmente avulse dalla realtà dei fatti. L’Italia che ha iniziato il suo percorso verso l’Unione Monetaria, a partire dagli anni ’70, non era il paese dei balocchi; le difficoltà politiche ed economiche erano tangibili e reali e, soprattutto, di nostra responsabilità. Se si può discutere di quanti o quali benefici abbia portato la moneta unica, non si può discutere sul fatto che i problemi che sperimentiamo oggi sono gli stessi, mutatis mutandis, che sperimentavano negli anni ’70, poi negli anni ’80, e infine negli anni ’90. Così come non si può discutere che la finanziarizzazione dei mercati, così come in generale la globalizzazione, siano un fenomeno globale che prescinde dalle politiche economiche e monetarie dei paesi europei. È difficile dunque sostenere che l’origine di tutti i nostri mali sia l’euro, e che usciti dall’euro torneremmo a dei fasti che non abbiamo in realtà mai sperimentato. Dentro o fuori l’euro avremmo comunque una situazione finanziaria terribile, e vivremmo ancora in un modo economicamente globalizzato dal quale, però, ci troveremmo a difenderci da soli. In secondo luogo, la tenacia con cui si è voluto rimanere al centro del processo di integrazione europea muoveva da considerazioni politiche del tutto legittime, oltre che sulla base del favore dell’opinione pubblica, a partire dall’idea che per poter influire sull’architettura e sulle regole di funzionamento dei trattati bisognasse essere lì per discuterli. Che in queste discussioni l’Italia abbia scontato la propria debolezza è, ancora, un fatto non imputabile all’Unione Europea. Si potrebbe pertanto iniziare, da parte nostra, ad iniziare ad affrontare i problemi con un approccio diverso da quello del “senno di poi”. Detto ciò, esistono sicuramente anche delle responsabilità internazionali e nessuno è parso, negli ultimi anni, volersi prendere l’onere di pensare all’Unione come un tutt’uno, invece che come un agglomerato di paesi ciascuno concentrato sul proprio interesse nazionale. L’idea di un’Europa “franco-tedesca” sembra essere giunta al capolinea almeno nel sentimento, sembrerebbe maggioritario, dell’opinione pubblica. È forse arrivato il momento per un pensiero nuovo, che ci liberi dall’angusta alternativa tra restaurazione e conservazione.