Storie e attualità del “nonnismo”

Un insieme di atti e pratiche che simboleggiano l’integrazione di un individuo in un particolare gruppo sociale. È la definizione di «nonnismo», fenomeno che riguarda diversi tipi di gruppi organizzati: dagli ambienti universitari (come le confraternite americane) ai gruppi sportivi fino ai luoghi di lavoro, dove il nonnismo assume spesso la forma del mobbing. Ma sono soprattutto le forze armate – caserme e scuole militari – il luogo simbolo del nonnismo; l’ambiente in cui i comportamenti vessatori dei «nonni», cioè i membri anziani del gruppo, si riversano sui «nipoti», coloro che hanno appena iniziato a farne parte. Creando un rapporto che ricalca alcune caratteristiche di quello tra i bulli e le loro vittime.

Gli episodi di nonnismo spaziano da semplici atti di superiorità – insulti pesanti, scherzi più o meno goliardici – a comportamenti ben diversi: furti e lesioni, atti denigratori, discriminatori e anche razzisti. Fino a veri e propri atti persecutori fini a se stessi che possono sfociare in gravi infortuni o episodi di autolesionismo.

Sebbene il nonnismo sia oggi vietato e generalmente scoraggiato all’interno dell’esercito, i racconti di chi ha fatto il militare e numerosi casi di cronaca mostrano che gli ambienti militari tendono a minimizzarlo. Esso è uno strumento di pressione e ricatto per sottomettere un soggetto o fargli compiere azioni contro la sua volontà, oltre che un mezzo per regolare le gerarchie all’interno della truppa. Una specie di alternativa ufficiosa alla gerarchia militare; un sistema per mantenere certi equilibri nelle unità e nei raparti – istillando la capacità di sopportazione e il rispetto per l’autorità – che induce ufficiali e sottoufficiali a chiudere un occhio, ignorare finché gli atti compiuti non sembrano avere gravi conseguenze. Dinamiche particolarmente frequenti nei paesi che adottano un esercito di massa, come in Italia fino all’abolizione della leva obbligatoria.

Flavio, Franco e Sergio

Franco ha svolto il servizio militare a Trento tra il ‘72 e il ‘73. Originario di un paesino abruzzese, mi racconta che per molti ragazzi la naja era la prima vera occasione per incontrare persone di altre parti d’Italia, oltre che di altre condizioni sociali. Spesso fare il militare significava la prima sigaretta, il primo contatto sessuale con una donna, la prima sbornia. Un giovane che dalla Sicilia arrivava in Trentino era «costretto a crescere», imparare a muoversi in un contesto diverso da quello di origine. Con amicizie e odi immediati che ricalcavano le provenienze geografiche: «odio» tra settentrionali e meridionali, tra bergamaschi e calabresi, veneti e napoletani.

Il servizio militare durava 15 mesi. Nei primi tre i «nonni», cioè i ragazzi prossimi al congedo, erano soliti fare degli «scherzi» alle reclute. Ai nonni si doveva rispetto, una serie di tributi informali come il «canto del cucù», una sorta di rito di iniziazione durante il quale i nuovi arrivati erano di fatto costretti a salire sulle mensole di ferro accanto ai letti a castello e intonare il «canto al nonno»: «Buonanotte nonnino, per te è finita, per me c’è una vita..». Franco racconta di aver «cantato» nei primi giorni di servizio e di essersi fatto fare il canto una volta diventato nonno: «Ma io non l’ho preteso, l’hanno fatto agli altri e allora anche a me.. Veniva fatto per scherzo, e con scherzosa violenza solo se qualcuno si rifiutava. Ma in genere la cosa era accettata: prima di arrivare già sapevi ciò che ti aspettava e che ti saresti potuto rifare sui tuoi successori». Del suo «turno» mi parla anche Flavio, che ha fatto la naja addirittura nel ‘66, per «15 mesi e 20 giorni» in Alto Adige: «Era stato fatto a noi e ora toccava a noi farlo su altri». Il suo tono è ingenuo, non c’è un senso di rivalsa in ciò che dice; soltanto l’idea che a quei tempi le cose funzionavano così.

Uno scherzo più pesante, spesso in risposta a mancati atti di riverenza (come pulire i bagni e le zone comuni), consisteva nel «bidone»: gavette di acqua sporca – di sciacquatura dei piatti o di escrementi vari – rovesciate in piena notte nei letti delle reclute. Oppure l’abitudine di infilare una sigaretta accesa tra le dita dei piedi di una recluta e aspettare che il tizzone ardente raggiungesse la pelle e lo svegliasse di colpo; il giorno dopo il ragazzo doveva marciare con il piede dolorante. Più leggero era lo scherzo del dentifricio, applicato sul cuscino di un nuovo arrivato: se il poveretto non si accorgeva di nulla, la mattina seguente era costretto a staccare la stoffa incollata alla barba con acqua calda e lametta. Goliardate e atti violenti, un confine piuttosto labile. Come testimonia Flavio, che ricorda bene che chi si rifiutava «de far ‘l cuco» veniva calato dalla finestra, appeso soltanto a un lenzuolo. Oppure costretto a spuntini poco invitanti a base di «patate e pisso».

Secondo Franco tutto ciò veniva sostanzialmente tollerato dai superiori, che condividevano il senso di questi atteggiamenti: «C’era l’idea che un artigliere che aveva subìto simili soprusi sarebbe stato più forte, in grado di resistere a tutto». Un vero uomo, capace di ubbidire ai superiori, rispettoso dell’autorità. E l’idea che gli scherzi cementassero i rapporti tra compagni: «Per trovare un feeling con qualcuno bastava aver sofferto le stesse angherie, spesso bastava per diventare amici».

A volte atti di nonnismo sopra le righe davano origine a vere e proprie vendette. Franco ricorda casi di qualche nonno preso a bastonate da reclute che non avevano accettato gli scherzi; episodi che certo non arrivavano alla stampa, ma restavano confinati al mondo chiuso della caserma. Se una recluta si vendicava i superiori punivano entrambi, sia il nuovo arrivato che il congedante: il primo perché aveva sbagliato a vendicarsi, mentre il secondo – a cui veniva allungata la naja – perché evidentemente aveva esagerato.

Le vendette più feroci erano opera dei ragazzi «più deboli, che sopportavano a lungo finché, giunti ormai al limite, scoppiavano come bombe». Sugli altri o su se stessi. Flavio cita diversi episodi di autolesionismo, con compagni che si tagliarono le vene e uno che si buttò dalla finestra: «Vedeva sta roba nera do sula neve, credeva che fusse carbon. Ho ciamà ‘l me compare Remo e avon ato l’alarme: ‘l s’era spacà tuti doi i denoci». Premi e punizioni venivano assegnati pubblicamente, perché fossero d’esempio a tutti. Ma non sempre: Franco ricorda «due ragazzi che la sera si mettevano nello stesso letto, per loro stare insieme era un modo per difendersi. Quando andarono al comando per lamentare tutte le angherie subìte, il comandante li congedò il giorno stesso – disonoravano il reggimento – senza punire i nonni».

Diversa è la storia di Sergio, che ha svolto il servizio militare nel 1989, in Friuli. Stando alle sue parole, le cose sembrano essere cambiate rispetto a venticinque anni prima: «Capitava di svegliarsi nei bagni pieni di sapone o di dover ballare davanti a tutti sulle note del jukebox, ma erano scherzi leggeri, goliardate e niente più.. Erano anni diversi». Certo gli aneddoti di Flavio e Franco appartengono a un’altra generazione, episodi di nonnismo di tale intensità sono oggi meno frequenti. Ma non sono scomparsi del tutto: mentre la società cambiava e le comunità non militari si adattavano ad essa, quello delle forze armate – e più in generale delle forze dell’ordine – è rimasto un ambiente chiuso che ha mantenuto regole proprie. Un ambiente a tratti omertoso in cui il rispetto per l’autorità e il ricorso alla violenza rischiano continuamente di sfuggire di mano.

Il caso Scieri e la leva obbligatoria

Per decenni, all’interno delle forze armate si è cercato di ostacolare la pubblicità dei casi di nonnismo e, quando non era possibile, di minimizzare o negare le colpe delle gerarchie militari. Negli anni 80 e soprattutto alla fine degli anni 90 simili episodi cominciarono però a emergere con maggiore frequenza e a diventare di dominio pubblico. Tra i più famosi ci furono l’uccisione dell’agente Samuele Donatoni, che perse la vita in circostanze poco chiare durante un blitz per la liberazione di un imprenditore rapito nel 1997, e la morte del paracadutista Emanuele Scieri, il cui corpo fu trovato nell’agosto 1999 nella caserma Gamerra di Pisa.

Il caso Scieri, rimasto per anni senza colpevole, scosse l’opinione pubblica e diede un impulso decisivo al superamento della leva obbligatoria. Ma soprattutto portò alla scoperta di una politica che, anziché arginare e perseguire gli atti di nonnismo, li tollerava e li nascondeva. Un passo avanti inaspettato nelle indagini per la morte di Scieri si è avuto nel 2018 – 19 anni dopo i fatti – con l’arresto di un suo commilitone dell’epoca. Il corpo del giovane siracusano venne trovato tre giorni dopo la sua scomparsa ai piedi di una torre usata per asciugare i paracadute. Secondo i magistrati, il militare fu fatto cadere e lasciato a terra agonizzante. Un gruppo di compagni più anziani lo avrebbero preso di mira perché si era opposto ad atti di nonnismo; dopo averlo picchiato, lo avrebbero costretto a salire in cima alla torre lungo una scala esterna, per poi pestargli le dita e fargli perdere la presa.Emanuele Scieri con la sua famiglia

Anche se non esiste un’autonoma fattispecie di reato, per contrastare il fenomeno del nonnismo nel 2000 vennero apportate alcune modifiche al codice penale militare, introducendo i reati di violenza privata, maltrattamenti ed estorsione. Mentre nel 2013 la Cassazione ha stabilito, nel caso in cui episodi di nonnismo aggravino i problemi psichici di un individuo, l’obbligo di risarcimento del danno da parte del ministero della Difesa.

Avere una misura dell’attuale diffusione del fenomeno non è semplice. Nel 1998 lo Stato maggiore della difesa inaugurò i lavori di un osservatorio permanente sul nonnismo, secondo cui negli anni successivi – complice l’abolizione della naja – si registrò un calo degli episodi. A partire dal 2012 ci sarebbe però stata una recrudescenza del fenomeno, tornato anche all’onore delle cronache. Le indagini per l’omicidio di Melania Rea, maturato nel 2011 nella caserma Clementi di Ascoli Piceno, hanno messo in luce i casi di nonnismo di cui erano vittime numerose allieve; episodi con «finalità di carattere sessuale» che rivelano come – con il progressivo arruolamento delle donne – esso abbia assunto un’ulteriore dimensione. Più di recente hanno fatto scalpore le accuse di Giulia Schiff, una pilota dell’aeronautica che ha lamentato di essere stata espulsa per «insufficiente attitudine militare» dopo aver denunciato il «rito a base di frustate, botte e testate» subìto dopo aver ottenuto il brevetto di volo. Un’accusa che ha perso di forza pochi giorni dopo, con la pubblicazione di un video in cui si vede la ragazza riservare il medesimo trattamento ad un commilitone.

Tra psicologia e sociologia

Il fenomeno del nonnismo all’interno delle forze armate è in un certo senso «fisiologico», compare spontaneamente negli ambienti militari di diversi paesi. Ne parlano Giulio Cesare nel De bello Gallico e Plauto nel Miles gloriosus, oltre a storici della guerra e soldati di tutte le epoche; in Italia è presente nell’esercito, nell’aeronautica e nella marina, ma anche nei carabinieri e nella polizia. Secondo Marco Cannavicci, psichiatra forense e criminologo, il nonnismo è un modo per affermare, nella microrealtà della caserma, un sistema di sottomissioni e precedenze di fatto funzionale all’esistenza dell’intero gruppo: chi si sottomette sarà anche protetto e rispettato dagli altri membri.

riti di iniziazione a cui sono sottoposti i nuovi membri di una comunità militare implicano uno stato di agitazione, un marcato stress emotivo che rende il passaggio in atto una tappa significativa della loro vita. Se vuole essere come i compagni, uno di loro e rispettato come loro, la recluta deve mostrarsi forte e tenace e riuscire a sopportare uno shock emotivo che ricorderà a lungo. Secondo Cannavicci, in molti casi il nonnismo ha sostituito le funzioni di un «battesimo» con riti che simboleggiano il passaggio da una vita all’altra, dalla condizione adolescenziale a quella adulta; un passaggio che deve prevedere emozioni come la paura, l’umiliazione, l’offesa gratuita di fronte agli altri.

Spesso però si assiste a una degenerazione molto violenta dei rituali del nonnismo. Uno scadimento di atti fisiologici che si può verificare in seguito all’incontro «tra particolari stili di vita del soggetto che li compie e particolari fattori ambientali»: condizioni proprie del contesto della caserma e spinte aggressive indotte da modalità di addestramento che non riescono ad essere contenute entro certi limiti.

Il nonnismo è funzionale alla catena di comando perché opera come una forma di potere che affianca la gerarchia ufficiale. Esso si crea quando all’asse di potere della gerarchia si sovrappone quello dell’anzianità. L’appartenenza di un militare a un determinato «scaglione» lo allontana o lo avvicina al congedo: quanto più si è vicini al congedo, tanto più si è anziani e si ha potere sui propri pari. Oltre a impartire la disciplina e l’addestramento, gli ufficiali possono esercitare un’ulteriore forma di controllo sulla massa dei soldati; un controllo del «polso» del nonnismo e una supervisione da dietro le quinte. Finché rimane nei limiti della goliardia, esso è generalmente permesso e difeso dai quadri ufficiali. E quando degenera in pesanti soprusi, in atti sadici e persecutori, la catena di comando si attiva non per correggere ma per reprimere e nascondere: se ciò fosse noto al di fuori dalla caserma, chi ne pagherebbe le conseguenze in termini di carriera sarebbe solo il comandante, che quindi è spinto a cercare di coprire l’accaduto.

L’ambiente militare richiede rinunce, sacrifici, autocontrollo delle frustrazioni personali; dai singoli si pretende maturità e capacità di gestirsi. Ma quando queste qualità sono carenti, le emozioni molto potenti – come la rabbia, il rancore e l’aggressività, incentivate dalla disciplina e dall’addestramento – non possono più essere soppresse. Ecco allora la tendenza a sfogarsi su chi non può difendersi e non può protestare. Infliggendo sofferenza gratuita si compensano gli stati d’animo di rabbia e più la vittima mostra di soffrire e chiede di non farle del male, più infliggerle dolore può essere gratificante e liberatorio. Avere il potere di far soffrire gli altri fa sentire forte e compensato chi in realtà è impotente, «prigioniero» della vita di caserma.

È il nonnismo a governare le camerate quando i quadri di comando non sono presenti, a stabilire le priorità di chi deve avere i permessi, i turni di riposo, i servizi più faticosi. Era questo fenomeno a gestire «la noia, l’inutilità, la nostalgia e la frustrazione dei militari, dando un significato – come scrive Cannavicci – ai troppi giorni senza significato». Che simili dinamiche abbiano contribuito a forgiare «veri uomini capaci di affrontare la vita» è tutto da dimostrare. Certo hanno condizionato l’esperienza di tanti ragazzi, «deboli» o semplicemente estranei alle logiche del nonnismo. Pochi mesi che però sono bastati a segnare intere esistenze.